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Dott. Andrea Arrighi
Psicologia Analitica (Jung) e Crescita Personale, Lesa (NO) - Milano (MI) - Farnese (VT)

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La solitudine, un problema diffuso quanto trascurato

Articolo pubblicato il 4 Giugno 2019.
L'articolo "La solitudine, un problema diffuso quanto trascurato" tratta di: Crescita personale e Psicologia Analitica (Jung).

Mentre siamo intenti a controllare l'ultimo sms ricevuto o la risposta a quello inviato qualche minuto prima, oppure a visionare nuove immagini e commenti proposti dal social network a cui siamo iscritti, potrebbe anche venirci in mente una domanda non inviata elettronicamente, ma antica quanto l'uomo: ma quanto sono solo? Sembra una domanda fin troppo semplice da porsi. Eppure le statistiche, anche quelle arrivate proprio attraverso gli stessi social, raccontano una verità allarmante, quasi sbalorditiva: una grossa fetta di popolazione appartenente ai paesi più ricchi e industrializzati dichiara di soffrire la solitudine e di vivere "di fatto" da solo.

Secondo Mauro Magatti, in un suo articolo su "Corriere.it" (29-4-19), non solo sono aumentati i problemi di ansia, depressione, ma:

"nei paesi europei, la percentuale di famiglie costituite da una sola persona è raddoppiata negli ultimi 50 anni. Con problemi particolarmente acuti nelle grandi città: a Milano siamo al 40% degli abitanti, a Parigi al 50%... a Manhattan il 90% dei nuclei è composto da una sola persona!"

Le reti sociali, evidenzia ancora Magatti, non sembrano corrispondere, nella vita reale, al numero di follower o agli "amici" sui social network, neppure lontanamente, mi viene da dire, considerando ancora altre percentuali:

"il numero di amici per persona è sceso in media da 2,9 nel 1985 a 2.1 nel 2004, mentre si è triplicata la quota di coloro che dichiarano di non avere nessun amico. E c'è ragione di credere che tali tendenze si siano accentuate negli ultimi 15 anni, dato che l'accelerazione delle nostre vite rende sempre più difficile riuscire a tutelare amicizie stabili e profonde"

La solitudine sembra quindi essere quel tipo di problema ampiamente diffuso, ma scarsamente verbalizzato, se non indirettamente. È un problema di cui, senza rendersene conto, ci si vergogna particolarmente. E anche sugli stessi social non è raro trovare commenti o post che criticano, più o meno direttamente, chi vive da solo. Molti regimi totalitari e anche la società attuale guarda con sospetto la persona "non sposata" , "non convivente" o la "famiglia monoparentale" o formata da una singola persona... anche se nella società occidentale appare una silenziosa maggioranza. Il "single" è spesso considerato "incapace di relazionarsi", incurabile "individualista" e "narcisista". Sembra che il collettivo spesso dimentichi che ognuno ha trascorso periodi "da solo" legati ad eventi di varia natura (separazioni, lutti, problemi economici, disagio esistenziale, ecc.).

Naturalmente, un individuo solo, non per sua scelta, che vive con un disagio nascosto la propria condizione, può non solo soffrire più o meno in silenzio, ma diventare anche aggressivo nei confronti del mondo in generale, quello quotidiano del suo lavoro, ma anche nei confronti di eventuali relazioni che ha occasione di intrattenere.
Il tipo di vita "velocizzato", è ancora da evidenziare, favorisce la sempre crescente mancanza o incapacità di empatia. Le relazioni stesse diventano "veloci", ma anche strumentali. Ognuno, magari non rendendosene conto, finisce col frequentare o interagire solo con chi gli può essere "utile" in termini lavorativi o sociali. Viene a mancare la semplice "simpatia", lo stare bene perché si riesce a parlare assieme raccontandosi reciprocamente problemi e successi del proprio percorso di vita, con la giusta misura di ironia e serietà. Se tutto questo manca, l'individuo, magari professionalmente di successo, ha tanti numeri di cellulare da chiamare, ma solo per esigenze di lavoro.

E internet e le app sociali? Provate a fare un test: i WhatsApp che conservate nel cellulare hanno tra i tanti partecipanti persone che effettivamente frequentate anche non virtualmente? Se rispondete positivamente, forse la solitudine non è un particolare problema per voi. Ma se le persone con cui occasionalmente chattate - magari in momenti non opportuni, in cui sarebbe utile essere totalmente lì dove siete, corpo e mente, si tratti di lavoro o socialità "dal vivo" - sono soggetti di cui ormai non ricordate neppure più la faccia o il carattere, o che avete incontrato occasionalmente e poi vi siete "conosciuti" soltanto con qualche battuta ogni tanto, allora attenzione: la solitudine potrebbe essere un problema che vi fa soffrire, ma che sottovalutate.

La Psicologia, la Sociologia e l'Antropologia stessa, l'insieme delle cosiddette scienze umane, se includiamo la Pedagogia, ma anche la Filosofia, avvertono come indiscutibile condizione dell'essere umano il suo essere "sociale". Nella solitudine noi lasciamo emergere, quasi inevitabilmente, i nostri modelli familiari e relazionali che abbiamo avuto. Stare da soli, se essenziale per riordinare idee e progetti o per finire un lavoro o rilassarsi, può, se sperimentato in eccesso, lasciare emergere insoddisfazione, pensiero eccessivamente critico e autocritico verso quello che si è e si è riusciti a realizzare.

A cosa potrebbe allora servire, rispetto al tema della solitudine, un percorso terapeutico?
In primo luogo a non "condannarsi" per questa situazione: riconoscere quanto possiamo essere influenzati da una critica sociale talvolta velata, poco appariscente. In secondo luogo, provare a rivisitare la propria storia di vita per rintracciare punti di forza e aspetti critici del proprio atteggiamento di fondo nei confronti di se stessi e degli altri. La vera autostima, come ho avuto modo di approfondire in un altro articolo, si esprime nel conoscersi nelle proprie possibilità e potenzialità, ma anche nei propri limiti o aspetti ancora non risolti o valorizzati.

Naturalmente è utile pensare anche a una specie di "storia della propria solitudine": quando è iniziata? Da quanto dura? Quali mezzi penso utili per limitarla? Quali sono i motivi personali che sento aver contribuito al mio essere solo?
Sono solo alcune possibili domande su cui lavorare assieme ad uno Psicoterapeuta. Il percorso aiuterà a valutare cosa è successo. Non sempre un periodo di solitudine è necessariamente "negativo", anche se può crearci disagio: talvolta serve a scoprire meglio quello che vogliamo, a indagare meglio aspetti personali trascurati, il lato positivo/negativo che Jung chiama "ombra". Può essere un periodo critico o "male necessario", inteso come un "viaggio dell'eroe delle fiabe o di ogni film" attraverso luoghi pericolosi e temuti, per farci apprezzare meglio quello che siamo e abbiamo ottenuto nel nostro percorso di vita. O, ancora, per valorizzare in modo diverso e migliore le relazioni che abbiamo e che avremo.

Riferimenti bibliografici
  • Arrighi, A. (2015), La soluzione trascurata. Bene e male nella psicologia junghiana raccontati attraverso il cinema, Alpes, Roma.
  • Jung, C.G. (1912-1952), Simboli della trasformazione, tr. it. in Opere vol.5, Torino: Bollati Boringhieri, 1992.

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