Articolo pubblicato il 16 Novembre 2017.
L'articolo "Il modello bio-psico-sociale nella prevenzione secondaria della patologia cardiaca" tratta di: Psicologia della Salute e Sostegno Psicologico.
Articolo scritto dalla Dott.ssa Roberta Dell'Acqua.
Il presente lavoro si basa sulla mia esperienza clinica in ospedale come Cardiopsicologa e si pone l'obiettivo di evidenziare la necessità di trattare le patologie cardiovascolari andando oltre la cura dell'organo cardiaco per "prendersi a Cuore" la persona da un punto di vista bio-psico-sociale.
Il presente articolo ha origine dalla mia personale esperienza lavorativa nell'ambito della Psicologia della salute in contesto sanitario, e nello specifico dall'attività svolta come Cardiopsicologa sia nei reparti di terapia intensiva e cardiologica, sia nella successiva fase di riabilitazione CardioRespiratoria1.
Il lavoro si basa sul modello bio-psico-sociale, spostando quindi l'attenzione dalla cura del solo muscolo cardiaco ad un prendersi cura della persona cardiopatica, considerata come organismo globale, degno di fiducia e facente parte di un sistema olistico.
Espressioni come "Spezzare il cuore a qualcuno" o "Avere un cuore gonfio di gioia" non rappresentano solo comuni modi di dire; è infatti sempre più evidente l'importanza del legame "mente-cuore" e del considerare le emozioni, gli atteggiamenti e i modelli di comportamento come i possibili fattori di rischio della patologia cardiaca.
Se negli ultimi anni la medicina ha fatto molti progressi per intervenire in fase acuta nella patologia cardiaca, rimane ancora una difficoltà importante l'aderenza ad una terapia nel medio e lungo periodo.
Curare una malattia o un sintomo è ben diverso dal curare una persona con una malattia. Prendersi cura di una paziente con un approccio olistico e integrato significa considerare l'individuo nel suo sistema, le sue abitudine, la sua rete sociale e familiare, le sue credenze, le sue paure e più in generale le sue emozioni e il suo modo di essere.
Non basta dire ad un paziente di smettere di fumare e di prendere i farmaci regolarmente: nella maggior parte dei casi, infatti, questa persona nel lungo termine riprenderà le abitudini non salutari, con il rischio di nuove ospedalizzazioni.
Modificare i fattori non salutari è un impegno faticoso e molto spesso compromesso da ostacoli come la scarsa conoscenza della patologia, i sintomi ansioso-depressivi e la negazione o sottovalutazione dell'evento stesso di malattia.
Vorrei iniziare riportando le parole di un paziente ricoverato presso l'Unità di Terapia Intensiva Coronarica (U.T.I.C) il giorno dopo aver avuto un infarto:"È successo tutto all'improvviso: sono arrivato con la mia auto al pronto soccorso per un dolore strano allo stomaco. Pensavo fosse un problema di digestione, invece il medico mi ha detto che il mio cuore ha avuto un infarto. Ma come è possibile? Come cambierà ora la mia vita?" L'esperienza condivisa di questa persona, con le sue domande e le sue paure, mette in rilievo il mondo emozionale di chi è stato colpito da un infarto.
Etichettato sulla cartella clinica come "IMA", l'infarto miocardico acuto rappresenta per il paziente un "fulmine a ciel sereno". È qualcosa di improvviso, di non previsto. È qualcosa che suscita caos.
È importante una figura psicologica che possa accompagnare il paziente nel suo percorso di guarigione e di cambiamento, al fine di favorire una maggiore aderenza alla terapia nel tempo, ridurre i futuri eventi clinici e migliorare la qualità di vita.
Lavorando in un paradigma bio-psico-sociale, mente e corpo sono dimensioni di uno stesso organismo, che ha la possibilità di influenzare e di promuovere la salute.
Solo aiutando le persone a lavorare su se stesse, sul sentire il proprio corpo anche attraverso il rilassamento muscolare e il training autogeno, è possibile un percorso di cura che porta la persona a prendersi maggior cura di sè.
La patologia cardiaca colpisce all'improvviso, mettendo a rischio il senso di continuità dell'individuo; inoltre non provoca solo delle conseguenze sulla salute fisica dell'organo, ma è in grado di destabilizzare la vita a vari livelli.
Sia durante la notizia della diagnosi, ma soprattutto nella successiva fase di recupero, si attivano nel paziente profondi stati di angoscia e di solitudine, di abbandono, di paura e di morte. Queste reazioni psicologiche possono essere considerate una risposta allo shock traumatico provocato dall'evento, strettamente legato al significato di minaccia per la vita della persona stessa.
Poichè non è facile per il paziente riconoscere le proprie emozioni, tutto ciò può provocare meccanismi adattivi disfunzionali come la negazione o la sottovalutazione dell'evento. La patologia cardiaca, inoltre, non è mai un evento casuale ma è collegata al modo di vivere dell'individuo.
Dietro ad una cartella clinica e ad una diagnosi di infarto c'è sempre un individuo, con le sue preoccupazioni, i suoi bisogni ma anche con i suoi interessi, le sue amicizie e i suoi valori. Non considerare tutto questo, significa non solo limitarsi a guarire un organo malato, ma ignorare un cuore che ha bisogno di essere ascoltato, liberato, per poter riprendere la sua energia vitale.
Modificare gli stili di vita poco salutari è spesso considerato dal paziente come un obbligo, una catena imposta da medici e familiari che vestono il ruolo di esperti.
C'è anche la paura che ogni cambiamento inevitabilmente comporta: se da un lato smettere di fumare e seguire un'alimentazione equilibrata è utile e desiderabile, dall'altro lato è presente la fatica di abbandonare abitudini consolidate e il timore di un fallimento.
È quindi importante accogliere l'ambivalenza e legittimare il conflitto interiore che anima la persona cardiopatica. Questo è possibile solo "abbandonando" il camice bianco da professionisti e istaurando una relazione empatica.
L'esperienza in ospedale mi ha insegnato come sia difficile non scivolare nell'abito dell' "esperto di prevenzione e promozione della salute": per facilitare e non colludere nel processo di cambiamento della persona, è importante accettare senza giudizio le sue emozioni, rispettare i suoi di tempi senza pretese e restituire valore alle sue risorse e potenzialità.
Il creare sin dai primi incontri un clima facilitante è lo strumento per istaurare una relazione comunicativa e fiduciosa con la persona, aiutarla ad abbassare le sue difese, permettendo di far emergere le speranze e le paure, i desideri e le fatiche che la malattia inevitabilmente nasconde.
È importante avere sempre l'attenzione sulla persona come organismo globale, entrare nel suo mondo senza perdersi per aiutarlo a sbrogliare il caos emotivo che lo ha travolto affinchè possa riprendere le redini della propria vita.
Considerare allora il processo di salute come una ricerca del benessere permette alla persona di partire proprio dall'evento stesso di malattia per andare oltre, per porsi domande su di sé, per avere il coraggio di aprire delle finestre interiori ed esplorare nuovi aspetti esistenziali della propria vita.
La patologia cardiaca espone la persona alla necessità di ridefinire il significato del proprio tempo e del proprio essere.
Prima dell'evento la persona viveva basandosi sulla fiducia riposta nel proprio corpo e su una sicurezza della dimensione del tempo che gli consentiva di agire e di riconoscersi nel mondo. Quando l'individuo si scontra con l'esperienza di malattia, deve affrontare un limite non solo fisico, ma contattare anche la cicatrice interna, la perdita di certezze e di un equilibrio ritenuto stabile.
Il trauma dell'infarto destabilizza il senso di identità della persona, le percezioni e le valutazioni che aveva delle proprie caratteristiche personali; provoca inoltre una separazione dalla precedente immagine del corpo e impone all'individuo la necessità di ricostruirsi un' identità personale, adattando il proprio Io alla mutata situazione in cui si trova a vivere.
Un approccio fenomenologico, che parte dall'esperienza vissuta della persona, consente di riporre al centro l'individuo, senza togliergli potere e favorendo lo sviluppo delle risorse personali.
Le sensazioni di smarrimento, di aver perso "il filo della propria vita", di essere stati traditi da un corpo apparentemente sicuro, necessitano un ascolto attento e rispettoso. Dare la possibilità alla persona di dare voce al proprio malessere in uno spazio e in un tempo adeguati, le permette di elaborare e di condividere i propri vissuti.
Un tempo che favorisca la relazione, l'incontro con lo psicologo e con altri pazienti, ma soprattutto l'incontro con se stessi. Il cambiamento di vita che i pazienti sono costretti ad affrontare infatti, non è ricondotto solo alla dimensione del benessere fisico ma anche ad aspetti psicologici e sociali.
La frustrazione davanti ai nuovi confini, il non potersi riappropriare dell'immagine di sé precedente alla malattia e le difficoltà rispetto al futuro imprevedibile, meritano di essere riconosciute e rispettate.
Dal momento che la rappresentazione che il paziente possiede verso la propria condizione di salute influisce sull'aderenza ad una terapia e quindi sul benessere psico-fisico, è importante partire proprio dal suo mondo, dalla sua personale visione della situazione, per favorire una globale cura della persona.
"Prendersi a Cuore" significa quindi prendere contatto con un mondo interiore, con le proprie paure e i propri desideri. È accettare il limite imposto dalla malattia, ponendosi domande ed esplorando le emozioni represse.
"Prendersi a Cuore" significa anche permettere alla ferita di infarto, di diventare una feritoia dalla quale porre un nuovo sguardo per progettare la propria vita.